martedì 14 maggio 2019

Kant e i nuovi compiti del pensiero

Kant è uno degli esponenti del pensiero occidentale, a cui ha dato un'impronta nuova segnando una vera e propria svolta nel panorama filosofico moderno. Kant capovolge i rapporti tra soggetto e oggetto del processo conoscitivo, assegnando un ruolo fondamentale al primo nell'elaborazione dell'esperienza.

Nato nel 1724 a Königsberg, non uscì mai dai confini della sua città, dedicandosi prevalentemente allo studio e all'insegnamento universitario. Quindi, diversamente dalla maggior parte dei filosofi moderni, non viaggiò e non si fece coinvolgere in attività politiche o diplomatiche.

Proverbiale è rimasta la sua puntualità. Si alzava ogni mattina alle cinque. Il suo domestico lo svegliava alle quattro e tre quarti e non usciva dalla camera se non dopo un quarto d'ora. La giornata proseguiva inflessibile con una successione regolare di attività: la colazione, lo studio e le lezioni all'università (Kant insegnava non solo filosofia, ma anche matematica e fisica, geografia e mineralogia, meccanica e diritto). Il pomeriggio, dopo il pranzo, s'intratteneva con gli amici, per poi andare a dormire alle dieci di sera. Si tramanda che i cittadini di Königsberg regolassero i propri orologi sui suoi movimenti.

La fase precritica e il risveglio dal sonno dogmatico

L'opera fondamentale di Kant è la Critica della ragion pura; a essa seguono la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio
In questo primo periodo Kant si forma sui testi razionalisti e degli empiristi. Analizzando a fondo i principi delle due correnti Kant comincia a nutrire i primi dubbi sulla validità della metafisica, fino a dichiarare di essere stato svegliato dal "sonno dogmatico" grazie alla lettura di Hume.

La fase del criticismo

Nel 1781 Kant dà alle stampe la prima edizione della Critica della ragion pura, ma che non viene accolto con favore dal pubblico, anche a causa della difficoltà del linguaggio oscuro e complesso. Negli anni seguenti, che caratterizzano appunto la fase del criticismo, Kant si dedica totalmente allo studio, seguendo uno stile di vita ritirato che lo isola dal resto del mondo. Nel 1787 pubblica la seconda edizione della Critica della ragion pura, a cui seguono la Critica della ragion pratica e la Critica del giudizio.

La struttura della Critica della ragion pura

La Critica della ragion pura è un trattato sistematico che risponde a un'esigenza metodologica fondamentale: secondo Kant, infatti, la sistematicità è un requisito indispensabile per ogni conoscenza scientifica. La rigorosa struttura dell'opera riflette l'architettura della ragione umana, soggetto e oggetto dell'indagine di Kant.

La Critica della ragion pura è suddivisa in due parti: 

  1. la Dottrina degli elementi, che procede alla scomposizione della ragione nelle sue parti fondamentali, gli elementi "puri" o "a priori" del conoscere;
  2. la Dottrina del metodo, che si riferisce al metodo di applicazione dei suddetti elementi formali.


La Dottrina degli elementi si spartisce a sua volta in Estetica trascendentale e Logica trascendentale. La prima analizza la conoscenza sensibile e le sue forme a priori; la seconda, invece, studia il pensiero e le sue regole.
La Logica trascendentale si suddivide a sua volta in Analitica trascendentale, che ha come oggetto specifico gli elementi di base dell'intelletto puro, e Dialettica trascendentale, che ha come oggetto la facoltà della ragione e i suoi principi.

L'Estetica trascendentale

Nell'Estetica trascendentale Kant analizza la sensibilità e le sue forme a priori. Secondo il filosofo ogni conoscenza inizia con l'esperienza, ossia con la percezione degli oggetti esterni da parte dei sensi. Il termine "estetica" dunque, è utilizzato nel suo significato originario (derivato dalla parola greca aisthesis, "sensazione"), in riferimento non a una teoria del bello o del gusto, bensì ai principi dell'intuizione sensibile.

Kant afferma che la sensibilità ha una duplice fisionomia: "passiva", in quanto riceve dall'esperienza esterna i dati percettivi, ma è anche "attiva", in quanto organizza il materiale che riceve dall'esterno attraverso due forme a priori: lo spazio e il tempo.

L'Analitica trascendentale


Kant aggiunge 2 categorie e le raggruppa in 4 classi. Prende spunto dalla logica medievale che parlava di 4 tipologie di giudizio (affermazione e negazione come le proposizioni apofantiche di Aristotele):

  • giudizi secondo quantità
  • giudizi secondo qualità
  • giudizi secondo relazione
  • giudizi secondo modalità

Il fatto che l'uomo usi le categorie, non significa che siano efficaci. Kant presenta questo problema come il più difficile di tutta la sua speculazione, è la parte più oscura della critica della ragion pura. Avverte lui stesso il lettore. È un problema che si pone perché non è idealista (la realtà non è prodotta dal soggetto, ma ha una sua autonomia), né realista (la mente è uno specchio capace di riflettere la realtà così come è, non mette in dubbio la capacità che ha l'uomo di conoscere il mondo). 
Kant è un critico e perciò pensa che la realtà esista esternamente al soggetto, ma che viene appresa attraverso i filtri che deformano la realtà. Si tratta di capire se i filtri siano reali. Kant osserva come gli oggetti della conoscenza possano essere pensati. È necessario che a capo vi sia un soggetto avente la possibilità di affermare la sua attenzione su ciò di cui si fa esperienza. Si presuppone un centro unificatore della conoscenza.

La Dialettica trascendentale


In quest’opera, Kant vuole dimostrare tutti gli errori commessi dalla ragione quando vuole spiegare il noumeno (ciò che sta oltre l’apparenza).
I tre errori sono:

  • Idea dell’anima: l’errore che la ragione commette sull’idea dell’anima nasce quando la ragione applica la categoria della sostanza all’Io penso, dando una corporeità all’Io penso.
  • Idea cosmologica: secondo Kant, l’uomo applica la categoria della totalità a delle esperienza sensibili errando perché, secondo lui, l’esperienza sensibile è percepita attraverso l’intuizione spazio-temporale, non si può applicare ai dati sensibili. 
  • Idea teologica: Kant critica l’idea ontologica che ha sempre caratterizzato i teologi che volevano dimostrare l’esistenza di Dio.

Kant dice che è abituato a cogliere solo attraverso i suoi sensi, contesta la prova causa-effetto: chi ha dimostrato che esiste una causa prima?

Conclusione: la nostra ragione erra quando si appropria ed applica le categorie dell’intelletto a idee che non son tali (quella dell’animo e dell’Io penso, del cosmo e di Dio).
Kant dà più importanza all'intelletto ruolo; spinge l’intelletto ad andare sempre oltre le sue conoscenze e le sue scoperte, sbaglia quando vuole superare i limiti dell’intelletto.

Il problema della morale nella Critica della ragion pratica

Secondo il filosofo il criterio dell'azione risiede nell'uomo e, in particolare, in una legge morale iscritta nel suo animo quale "fatto della ragione" incondizionato e universale, che s'impone come dovere. Distinguendo tra imperativi ipotetici (condizionati, del tipo "se vuoi essere onorato, rispetta la parola data") e imperativi categorici (incondizionati, del tipo "non mentire mai"), Kant sostiene che la morale si fonda solo e unicamente su questi ultimi.

 L'etica kantiana, pertanto, si configura come un'etica "formale", in quanto non prescrive comportamenti particolari, bensì solo la "forma" delle azioni morali che, per essere tali, devono corrispondere al principio di universalizzazione.

Kant poi, amplia tale principio attraverso tre celebri formulazioni dell'imperativo categorico:
  1. agisci, "soltanto secondo quella massima che puoi volere che divenga una legge universale"
  2. "agisci in modo da trattare l'umanità sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo"
  3. agisci in modo tale che "la volontà possa considerare contemporaneamente se stessa come universalmente legislatrice"
Dio e l'anima non sono oggetto di dimostrazione, ma rappresentano una ragionevole speranza per l'uomo. In ciò consiste il "primato" della ragion pratica rispetto alla ragion pura: sul piano pratico la ragione ammette proposizioni che sarebbero inammissibili dal punto di vista teoretico.

Il problema estetico nella Critica del giudizio

Questo problema viene affrontato nella terza Critica, in cui Kant analizza il "sentimento" che egli considera intermedio tra l'intelletto e la ragione e che identifica con la facoltà del giudizio: è attraverso esso che l'uomo coglie la bellezza delle cose e fa esperienza delle finalità insita nel reale.

La prima parte della Critica è dedicata all'analisi del giudizio "estetico", e si sofferma sui concetti di "bello" e di "sublime". Il giudizio estetico è puramente contemplativo e disinteressato: non riguarda l'oggetto in sé, bensì la sua rappresentazione e il piacere che suscita.
Esiste, in tutti i soggetti, un "senso comune", che permette di cogliere l'accordo sussistente tra l'immagine della cosa e le nostre esigenze di unità e finalità. In tale accordo e armonia consiste la bellezza, che dunque non appartiene alla cosa, ma al soggetto.

L'ultima riflessione della Critica è dedicata al giudizio teleologico (finalistico), il quale coglie anche nella natura la presenza di scopi e finalità. Ma si tratta solo di un'esigenza propria dell'uomo, che lo porta a ricercare le cause finali dei fenomeni naturali e che sfocia in un'evitabile visione teologica.



lunedì 15 aprile 2019

Hume e gli esiti scettici dell'empirismo


Nato a Edimburgo da una famiglia della piccola nobiltà terriera, Hume compie i propri studi al college e poi all'università della medesima città. Il suo scritto filosofico più impegnativo, il Trattato sulla natura umana, pubblicato a ventotto anni, rappresenta un insuccesso editoriale. Scopo principale del Trattato è quello di disegnare una "nuova scena del pensiero", tesa a cambiare radicalmente l'approccio tradizionale ai problemi filosofici.

L'esigenza di sottoporre il pensiero a un esame critico nasce dalla consapevolezza della fragilità e incoerenza dei sistemi filosofici più accreditati. Si tratta di un compito che Hume giudica più importante e urgente della stessa rifondazione della scienza della natura operata da Newton, in quanto tutte le altre conoscenze dipendono, in un la o modo o nell'altro, dalla natura umana.


Le impressioni e le idee

Nel Trattato Hume analizza la conoscenza umana, individuando nella "percezione" la sua unica fonte. Egli, quindi, distingue le percezioni in due tipologie, le impressioni e le idee,

  • le "impressioni" sono le percezioni nel momento in cui sono attuali, ossia quando colpiscono con maggior forza ed evidenza la coscienza;
  • le "idee", invece, sono le immagini indebolite delle impressioni
Se, ad esempio, tocco un ferro rovente ho subito l'impressione del dolore; successivamente, avrò l'immagine di tale dolore nella mente. Le impressioni e le idee, dunque, sono frutto delle medesime percezioni, considerate però in tempi diversi. 
Ne deriva che tutte le idee devono essere ricondotte alle loro impressioni originarie, cioè alla percezione nella sua attualità.

Il principio di associazione tra le idee

Hume individua due facoltà, la memoria e l'immaginazione, in virtù delle quali possiamo conservare nella mente le impressioni e collegare tra loro le idee che ne derivano. La funzione principale della memoria consiste nel conservare l'ordine e la posizione delle idee semplici, ad esempio facendoci ricordare le persone nei luoghi in cui le abbiamo conosciute; quella dell'immaginazione, invece, è di stabilire delle relazioni tra le idee, operando con una certa libertà.

Nonostante l'autonomia di cui gode la mente, ci rendiamo conto che le nostre idee si presentano perlopiù organizzate secondo schemi fissi: l'immaginazione non è totalmente libera, perché anche nei "sogni" essa procede seguendo il principio di associazione

Il principio di associazione opera secondo tre criteri fondamentali: la somiglianza, la contiguità, la relazione di causa ed effetto.

Le due tipologie di conoscenza

Secondo Hume, i criteri associativi determinano quelle che Locke definiva "idee complesse", derivate dall'unione di due o più idee semplici. Sono complesse, ad esempio, le idee di spazio e tempo, di causa ed effetto.
Tuttavia si domanda l'autore, possiamo essere sicuri delle conoscenza che derivano dall'associazione delle idee? La sua risposta è che possiamo essere assolutamente certi solo di quelle che implicano una pura relazione tra idee, cioè che si ottengono derivando un'idea dall'altra senza bisogno di ricorrere all'esperienza, e che sono dotate di necessità logica.

Ad esempio, che 2+2 sia uguale a 4 lo sappiamo senza bisogno di riferirci all'esperienza: nel 4 è già contenuta l'idea della somma 2+2. 

Tutte le verità matematiche sono di questo tipo e sono certe. Quando però ci imbattiamo in conoscenza che derivano dalla relazione tra dati di fatto (come la convinzione che domani il sole sorgerà), allora possiamo aspirare solo a un maggiore o minore grado di probabilità. Rispetto a questo tipo di relazione non possediamo la certezza matematica, ma dobbiamo ricorrere alla verifica empirica.

L'analisi dell'idea di causa

Tutte le conoscenza relative a dati di fatto sono caratterizzate dal principio di causalità, che pertanto diventa un nodo cruciale dell'indagine filosofica humiana. L'idea di causa è secondo Hume del tutto particolare: essa non si configura come una pura relazione tra idee, ma rimanda all'esperienza

Se, ad esempio, metto un dito a contatto con il fuoco, affermo che il fuoco è stato la causa della scottatura. Ma che cosa avviene realmente nella nostra mente quando riconosciamo una relazione causale? Constatiamo che l'impressione "B" è contigua o successiva all'impressione "A":


"B" si presenta sempre dopo "A"

Che cos'è, dunque, la relazione di causa ed effetto? Nient'altro che la tendenza della nostra immaginazione, a proiettare nel futuro ciò che si è presentato con regolarità nel passato. E' dunque in virtù di un arbitrario salto logico che siamo portati ad attribuire la nozione di "causa" a un dato fenomeno: osserviamo che due eventi si verificano uno dopo l'altro con regolarità e, operando un'indebita inferenza, generalizziamo dicendo che A è causa di B, come se in A ci fosse una proprietà capace di riprodurre sempre e necessariamente l'effetto B. In altre parole, e con formula latina, noi commentiamo l'errore di trasformare il post hoc (dopo questo) in propter hoc (a causa di questo).

Proviamo a schematizzare i punti fondamentali dell'argomentazione humiana:
  1. l'esperienza attesta la regolare contiguità e successione di due eventi;
  2. l'immaginazione, sorretta dall'abitudine, porta a credere che il rapporto sia necessario e che, nel futuro, i due eventi saranno ugualmente collegati;
  3. tale legame, tuttavia, esiste solo nella nostra mente, come abitudine soggettiva a collegare un fenomeno A (ad esempio il fuoco) a un altro fenomeno B (la combustione);
  4. la relazione causa-effetto non è necessaria né oggettiva, ma risiede in un'attitudine soggettiva.

L'abitudine come fonte di credenza



Con l'indagine sulla causalità Hume arriva a stabilire il seguente principio: l'esperienza non può garantire che due fenomeni che si presentano oggi connessi tra loro lo saranno anche in futuro; allo stesso modo, essa non può offrire garanzie sull'uniformità del corso della natura. E' infatti solo la forza dell'abitudine che ci porta a ritenere che il mondo fisico sia retto da principi universali e che il suo comportamento generale sia regolare e costante.

Il sapere scientifico non ci può dire nulla sulle leggi fondamentali e immutabili dell'universo: può soltanto classificare la regolarità già osservate e fare previsioni probabili. Dall'abitudine nasce la credenza: essa non è un atto dell'intelletto, ma un sentimento naturale, un istinto che ci spinge a dare il nostro assenso alle impressioni, dotate di maggiore forza e vivacità rispetto alle idee. 

In conclusione possiamo affermare che agiamo sulla base di credenze, ma non possediamo certezze; anche la causalità, intesa come rapporto necessario tra due fatti, è qualcosa che in realtà deriva dalla nostra immaginazione e dal nostro istinto, un sentimento che ci permette di orientarci nella vita anche in assenza di conoscenza assolute. Tali considerazioni sono alla base della critica che Hume muove a un concetto fondamentale della metafisica del passato, quello di "sostanza".

La critica all'idea di sostanza

Riprendendo le argomentazioni di Locke, Hume distingue tra "sostanza materiale" e "sostanza spirituale". Per quanto riguarda le sostanze materiali, la nostra mente percepisce soltanto le impressioni di singole qualità delle cose: ad esempio, della mela che sto mangiando percepisco che è rotonda. Poiché l'esperienza ci presenta sempre in connessione tali qualità per abitudine, che esse appartengano a un'entità - nel nostro caso la mela - che identifichiamo come una "cosa". 

L'errore che commettiamo consiste nel ritenere esistente la mela come "sostanza", mentre non è che una semplice compresenza di singole proprietà

L'io non è altro che il frutto della nostra inclinazione a individuare un fondamento unitario delle percezioni contigue e ad attribuire a te presunta entità un'ininterrotta e immutevole esistenza lungo il corso della vita.

L'io è ciò che dà unità e ordine alle sensazioni



La prospettiva etica di Hume

L'approccio humiano alla conoscenza ha il merito di favorire lo sviluppo di una visione delle cose anti-dogmatica, flessibile e aperta alla conferma dei fatti. Quello che conta ai suoi occhi è l'utilità che la società ottiene da un determinato atteggiamento degli individui. Lo stesso vale per la "giustizia", che non si definisce in riferimento a principi assoluti e immutabili, ma alla necessità di assicurare un'ordinata convivenza civile.

A questo proposito, Hume opera un'importante distinzione tra la sfera dell' "essere" e quella del "dover essere". Egli afferma che occorre evitare di passare arbitrariamente dal piano dell'essere (furto, bugia ecc.) al piano del dover essere (non si deve rubare, dire bugie ecc.) 
In altri termini, secondo la raccomandazione di Hume è sbagliato pretendere di poter dedurre dal piano descrittivo (particolare) quello prescrittivo (universale). 

Azioni come l'ubriacarsi, ad esempio, vengono considerate ingiuste solo se commesse ai danni degli altri compromettendo il benessere sociale. 

Nel campo della morale è "normale" ciò che corrisponde alle consuetudini degli uomini, è "anormale" ciò che contrasta: il bene e il male non si possono stabilire con procedimenti razionali, ma si giudicano sulla base di principi empirici.







sabato 30 marzo 2019

Locke: la concezione dello Stato e l'affermazione della tolleranza

Locke, oltre che fondatore dell'empirismo, è considerato anche il principale teorico del pensiero liberale e democratico moderno. Le sue idee sulla politica, esposte soprattutto nei Due trattati sul governo civile, ebbero vasta eco in tutta Europa (in particolare presso gli illuministi francesi) e influenzarono i padri della Dichiarazione d'indipendenza (1776)e della Costituzione degli Stati Uniti d'America (1787).

Stato di natura e contratto sociale

Ma qual'è la natura dello Stato? La risposta del filosofo è contenuta nel Secondo trattato, dove si trova l'esposizione completa del pensiero politico dell'autore.
Locke inizia le sue riflessioni partendo dalla definizione dello stato di natura, quella ipotetica condizione originaria in cui si trovano gli uomini quando non sono ancora associati tra loro e disciplinati da una serie di norme positive. 

Locke ha una visione positiva della natura umana e pertanto crede che i soggetti dello stato di natura non siano esseri asociali e amorali, ma individui illuminati dalla ragione. Essi infatti possiedono una legge morale di carattere razionale, che deriva direttamente da Dio e prescrive il rispetto di tre diritti specifici, naturali e inalienabili: 

alla vita, alla libertà, alla proprietà 

Locke ammette tuttavia che in tale stato originario manca la garanzia del diritto: chiunque potrebbe prevaricare sugli altri mosso da egoismi personali. E' a questo scopo che gli individui devono stipulare tra loro un contratto di natura sociale, concezione definita appunto contrattualismo. Esso comporta due accordi: un patto (pactum unionis) con cui le persone si riuniscono in una società civile; un altro patto (pactum subiectionis) con cui decidono di sottomettersi a un'autorità, che ha il compito di perseguire nel modo migliore gli obiettivi collettivi.

La proprietà privata

Tra i diritti naturali dell'uomo Locke pone la proprietà privata. L'uomo ha il diritto inalienabile di godere e disporre dei suoi beni. Locke asserisce che Dio ha dato la terra come risorsa comune a tutti gli uomini. Per la prima volta nella storia del pensiero politico si afferma che la legittimazione della proprietà privata sta nel lavoro: la proprietà non è un privilegio acquisito, ma il frutto dell'azione umana.

Locke riconosce però anche dei limiti alla proprietà privata. Seguendo l'ispirazione cristiana, sostiene infatti che, essendo gli uomini solidali in quanto figli di Dio, non devono appropriarsi delle cose smodatamente, perché così priverebbero gli altri di ciò che è necessario per la sopravvivenza.

Per Locke la proprietà privata non è costituita soltanto dai possedimenti materiali, ma in termini più generali dalla vita, dalla libertà e dagli averi, e che la società politica nasce proprio per tutelare tale diritto, il più minacciato dallo stato di natura.

I principi fondamentali del liberalismo

Vediamo nel dettaglio i principi che ispirano la concezione del filosofo inglese e che, ancora oggi, si ritrovano alla base delle Costituzioni dei paesi democratici.
  1. Innanzitutto, il potere politico si fonda sul consenso dei cittadini, espresso attraverso le decisioni della maggioranza dei loro rappresentanti; è da tale consenso, ad esempio, che deriva il contratto sociale.
  2. Lo Stato non può governare in modo arbitrario, cioè secondo la propria volontà, ma deve attenersi alle norme promulgate, dichiarate e riconosciute da tutti. Tra i diritti fondamentali che lo Stato deve garantire vi sono quello della proprietà privata, il diritto alla libertà di pensiero e di espressione, e il diritto alla vita che non deve essere compromessa, ostacolata o umiliata.
  3. Il potere legislativo, cui compete l'emanazione delle leggi, deve essere separato da quello esecutivo, a cui spetta il compito di farle eseguire anche con l'uso della forza.
Il principio della separazione dei poteri riveste un'importanza storica particolare e costituisce una tesi classica del pensiero liberale

Esso nasce dalla considerazione che occorre prevedere una serie di limiti al potere politico, che servano a moderarlo e a circoscriverlo; se non esistesse tale controllo esso tenderebbe a divenire assoluto e, quindi, a prevaricare i legittimi diritti dei cittadini.
Nella riflessione lockaniana il potere legislativo ha una superiorità rispetto a quello esecutivo.
Locke e l'indagine critica delle facoltà conoscitive

John Locke (1632-1704) è il padre dell'empirismo moderno. La sua opera più impegnativa, il Saggio sull'intelletto umano, segna un'inversione di rotta rispetto alla filosofia razionalistica, perché si propone un'indagine critica delle facoltà conoscitive con l'obiettivo di stabilirne possibilità e soprattutto limiti. 

Nell'ottica di questo progetto, la ragione non viene più ritenuta assoluta e infallibile, come in Cartesio, ma viene ricondotta entro i confini dell'esperienza.

La critica dell'innatismo

Il Saggio sull'intelletto umano, che si compone di quattro parti, dedica significativamente la prima alla critica delle idee innate, che consisteva nel ripulire il terreno dai detriti che si incontravano sul cammino della conoscenza. Ora, tra questi detriti il filosofo annovera la teoria secondo cui vi sono alcuni principi o idee impressi nella nostra mente, che l'anima riceve fin dal primo istante della sua esistenza. Tale dottrina, antichissima, risale a Platone, ma era stata riproposta da Cartesio in età moderna. 
Essa veniva dimostrata dai suoi fautori in base alla constatazione della presenza di un certo numero di verità fondamentali in ogni uomo, indipendenti dalle condizioni esterne, ad esempio il principio di non contraddizione che così si definisce:

"è impossibile che una cosa sia e non sia allo stesso tempo"

Locke critica questa tesi sostenendo che è falsa: i bambini e gli idioti (cioè coloro che sono affetti da un deficit mentale) non hanno la minima nozione di simili principi, pertanto non sussiste un consenso universale.

Tra gli uomini non vi è consenso neppure sulle norme morali, ad esempio sull'idea di male e bene. Questa disparità di vedute confuta l'innatismo, mostrando la falsità delle argomentazioni che lo sostengono e che ostacolano, secondo Locke, il progredire della conoscenza.

L'origine della conoscenza

Se non possiamo affidarci a nozioni possedute fin dalla nascita, da dove deriva la nostra conoscenza? La risposta di Locke è che essa dipende interamente dall'esperienza. La mente di un neonato, infatti, è come un foglio bianco, ossia è una facoltà priva di contenuti. Tutte le idee provengono dall'esperienza.
Locke sostiene che dall'esperienza derivano due tipologie differenti di idee:
  • le idee di sensazione
  • le idee di riflessione
Le idee di sensazione provengono dagli oggetti esterni tramite i cinque sensi: vista, udito, olfatto, tatto, gusto.
Le idee di riflessione, invece, sono quelle che derivano dall'esperienza umana, la quale, oltre alle operazioni proprie della mente, comprende gli stati d'animo e le passioni.

Sensazione e riflessione sono le uniche fonti della nostra conoscenza. Si capisce perché i bambini acquisiscano in modo graduale le loro cognizioni, le quali sono tanto più strutturate quando vive e varie sono le esperienze che essi fanno
Di qui il ruolo centrale che ha in Locke il tema dell'educazione, a cui egli dedicò uno scritto di grande interesse pedagogico (Pensieri sull'educazione). 

La classificazione delle idee

Locke dopo aver spiegato l'origine delle idee, procede a distinguerle in due grandi classi: le idee semplici e le idee complesse.
Le idee semplici derivano dalle esperienze elementari della sensazione o della riflessione.

Una volta che la mente ha ricevuto passivamente le idee semplici, può immagazzinarle, riprodurle e combinarle, formando così quelle che Locke definisce idee complesse.
Ne consegue che l'intelletto non può creare nuove idee semplici, indipendenti dall'esperienza, né distruggere quelle che provengono da essa.

venerdì 29 marzo 2019

Leibniz e l'universo come organismo vivente


"Anche nella più piccola parte di materia c'è un mondo di creature, di viventi, di animali, di anime."
(Leibniz, Monadologia)

Leibniz afferma che il nostro è il migliore dei mondi possibili, infatti Dio ha scelto il meglio secondo ragione tra infinite possibilità la libertà divina coincide con la razionalità.

Sostiene una concezione dinamica della realtà in cui a fondamento della realtà meccanicistica vi è una dimensione sostanziale metafisica, cioè la forza viva che è l'essenza delle sostanze individuali.

Leibniz afferma che nel mondo vi sono infinite sostanze individuali: le monadi
  • centri di forza semplici, immateriali e privi di estensione
  • entità complete e autosufficienti, dotate di capacità rappresentativa

La percezione 
→ l'attività mediante la quale le monadi percepiscono in modo oscuro e confuso le cose esterne. L'appercezione → la conoscenza chiara e distinta dell'attività percettiva

Vi sono tre tipologie di monadi:
  1. quelle del tutto prive di coscienza
  2. gli animali
  3. gli spiriti superiori
sono create da Dio, la monade suprema, il quale pone tra le monadi un'armonia prestabilita grazie a cui vi è accordo perfetto tra gli eventi che accadono in ciascuna di esse e quelli che accadono nelle altre.

La logica e il progetto di matematizzazione del pensiero

Leibniz elabora un metodo logico per matematizzare il pensiero cioè per ridurre le operazioni mentali a un calcolo


Elabora poi una distinzione tra:


  • verità di ragione → verità necessarie in cui il predicato è implicito nel soggetto da cui può essere dedotto con necessità. Riguardano il mondo della logica e si fondano sui principi di identità e non contraddizione.
  • verità di fatto → verità contingenti i cui predicati non possono essere dedotti dal soggetto e il cui contrario è sempre possibile. Riguardano il mondo reale e si fondano sul principio di ragion sufficiente.

venerdì 8 febbraio 2019

Il Leviatano

Il potere attribuito all'autorità, che ha il compito di emanare e di fare rispettare le leggi, per Hobbes deve essere assoluto. Allo Stato assoluto il filosofo dà il nome di Leviatano, il mostro marino di cui si parla nel libro di Giobbe nell'Antico Testamento per simboleggiare la potenza dei faraoni d'Egitto: una creatura terribile e mostruosa, la più terribile esistente sulla faccia della Terra. Tale denominazione si giustifica secondo Hobbes perché il potere sovrano è immenso, unificando in sé quello di tutti gli altri individui, diventati sudditi. 

Nel frontespizio del suo capolavoro Hobbes fece raffigurare il re proprio come un individuo sovra-umano, dotato delle teste di una moltitudine di uomini, quasi a mostrare tangibilmente questa concentrazione di tutti i poteri nelle mani di una sola persona.

Hobbes spiega che si può raggiungere un tale ruolo "sovrano" in due modi:

  • Il primo prevede l'impiego della forza, ad esempio quando un uomo impone ai suoi figli di sottomettersi al suo dominio, avendo la facoltà di punirli se si rifiutano
  • Il secondo prevede invece un accordo tra le persone, le quali si assoggettano volontariamente a un'autorità, al fine di garantire la propria sopravvivenza.
Quest'ultima modalità configura uno Stato politico o istituzionale, mentre la prima uno Stato per le autorità, patriarcale e dispotico. Per quanto il filosofo nel Leviatano analizzi lo stato derivante dal patto tra gli individui. Da questo punto di vista, la posizione di Hobbes è riconducibile al giusnaturalismo moderno, che ha il suo punto di forza nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile mediante un patto.
L'uscita dallo stato di natura e l'origine della società civile

Hobbes continua il suo ragionamento seguendo un procedimento rigorosamente deduttivo: essendo lo stato di natura caratterizzato da un'ostilità che rischia di distruggere la stessa natura umana, colui che desidera continuare a vivere in una tale condizione si contraddice, perché vuole al tempo stesso la propria vita e la propria morte.

Secondo Hobbes, se gli uomini vogliono sopravvivere devono evitare la lotta indiscriminata di tutti contro tutti e porre dei freni al proprio diritto soggettivo e alla illimitata libertà di ciascuno. Per avere la pace ognuno deve rinunciare al diritto naturale e incondizionato che presiede alla soddisfazione dei propri desideri.

La ragione suggerisce una serie di massime, cioè delle leggi naturali, tra cui Hobbes annoverà in primo luogo la ricerca della pace. Da questa legge fondamentale deriva la seconda massima, in base alla quale ogni uomo deve rinunciare volentieri al proprio diritto su tutte le cose, accontentandosi di avere tanta libertà rispetto agli altri quanta è concessa agli altri rispetto a lui.

Una volta che ognuno abbia rinunciato al proprio incondizionato diritto naturale, si verifica l'uscita dello stato di natura, attraverso un compromesso o patto che vincola i contraenti, ossia tutti gli individui. Ovviamente i patti devono essere rispettati, come prescrive la terza legge di natura: pacta servanda sunt. Se, infatti non si rispettassero i patti l'accordo preso si ridurrebbe a parole vacue e gli uomini resterebbero nello stato di guerra.

Da queste tre massime fondamentali derivano tutte le altre leggi, ad esempio quella della giustizia e dell'uguaglianza.