venerdì 8 febbraio 2019

Il Leviatano

Il potere attribuito all'autorità, che ha il compito di emanare e di fare rispettare le leggi, per Hobbes deve essere assoluto. Allo Stato assoluto il filosofo dà il nome di Leviatano, il mostro marino di cui si parla nel libro di Giobbe nell'Antico Testamento per simboleggiare la potenza dei faraoni d'Egitto: una creatura terribile e mostruosa, la più terribile esistente sulla faccia della Terra. Tale denominazione si giustifica secondo Hobbes perché il potere sovrano è immenso, unificando in sé quello di tutti gli altri individui, diventati sudditi. 

Nel frontespizio del suo capolavoro Hobbes fece raffigurare il re proprio come un individuo sovra-umano, dotato delle teste di una moltitudine di uomini, quasi a mostrare tangibilmente questa concentrazione di tutti i poteri nelle mani di una sola persona.

Hobbes spiega che si può raggiungere un tale ruolo "sovrano" in due modi:

  • Il primo prevede l'impiego della forza, ad esempio quando un uomo impone ai suoi figli di sottomettersi al suo dominio, avendo la facoltà di punirli se si rifiutano
  • Il secondo prevede invece un accordo tra le persone, le quali si assoggettano volontariamente a un'autorità, al fine di garantire la propria sopravvivenza.
Quest'ultima modalità configura uno Stato politico o istituzionale, mentre la prima uno Stato per le autorità, patriarcale e dispotico. Per quanto il filosofo nel Leviatano analizzi lo stato derivante dal patto tra gli individui. Da questo punto di vista, la posizione di Hobbes è riconducibile al giusnaturalismo moderno, che ha il suo punto di forza nel passaggio dallo stato di natura allo stato civile mediante un patto.
L'uscita dallo stato di natura e l'origine della società civile

Hobbes continua il suo ragionamento seguendo un procedimento rigorosamente deduttivo: essendo lo stato di natura caratterizzato da un'ostilità che rischia di distruggere la stessa natura umana, colui che desidera continuare a vivere in una tale condizione si contraddice, perché vuole al tempo stesso la propria vita e la propria morte.

Secondo Hobbes, se gli uomini vogliono sopravvivere devono evitare la lotta indiscriminata di tutti contro tutti e porre dei freni al proprio diritto soggettivo e alla illimitata libertà di ciascuno. Per avere la pace ognuno deve rinunciare al diritto naturale e incondizionato che presiede alla soddisfazione dei propri desideri.

La ragione suggerisce una serie di massime, cioè delle leggi naturali, tra cui Hobbes annoverà in primo luogo la ricerca della pace. Da questa legge fondamentale deriva la seconda massima, in base alla quale ogni uomo deve rinunciare volentieri al proprio diritto su tutte le cose, accontentandosi di avere tanta libertà rispetto agli altri quanta è concessa agli altri rispetto a lui.

Una volta che ognuno abbia rinunciato al proprio incondizionato diritto naturale, si verifica l'uscita dello stato di natura, attraverso un compromesso o patto che vincola i contraenti, ossia tutti gli individui. Ovviamente i patti devono essere rispettati, come prescrive la terza legge di natura: pacta servanda sunt. Se, infatti non si rispettassero i patti l'accordo preso si ridurrebbe a parole vacue e gli uomini resterebbero nello stato di guerra.

Da queste tre massime fondamentali derivano tutte le altre leggi, ad esempio quella della giustizia e dell'uguaglianza.
L'esperienza dell'ostilità e del conflitto

Nei tempi drammatici in cui Hobbes vive, quando gli uomini si mettono in viaggio prendono con se le armi e si fanno accompagnare da qualcuno che li protegga; quando la notte vanno a dormire, chiudono a chiave tutte le porte in casa. 

Quale deve essere pertanto l'opinione che ognuno ha dell'altro, se si viaggia armati, si chiudono gli ingressi, non ci si fida neppure dei figli, dei famigliari e dei servitori?

E' innegabile che in ogni tempo i re e i governanti dei vari paesi si sono comportati come i gladiatori romani, con le armi puntate e gli occhi fissi l'uno sull'altro. In altre parole, per quanto le guerre combattute con le armi non costituiscano la norma, tuttavia la vita degli uomini è costellata di misure atte a difendersi da possibili attacchi o ad offendere gli altri al momento opportuno. Tutto ciò è un chiaro segno di quella predisposizione alla guerra che caratterizza la natura umana.

L'ostilità, il conflitto, la violenza sono dunque prerogative dello stato di natura. Bisogna precisare che tale concezione non costituisce tanto una realtà effettiva quanto un'ipotesi teorica razionale su ciò che potrebbe verosimilmente accadere nella società umana se non ci fosse una forma di potere superiore a regolamentare i rapporti tra gli individui.

Lo stato di natura si rivela un'ipotesi verificata in alcune circostanze di fronte alle quali diventano evidenti i rischi a cui l'umanità è continuamente esposta e la necessità di istituire ordinamenti giuridici che possono aiutare a contenerli.
La teoria dell'assolutismo politico

Contro la concezione aristotelica dell'uomo come "animale politico", Hobbes afferma che gli individui non possiedono un naturale istinto "socievole" o "amorevole" verso gli altri, essendo piuttosto dominati da sentimenti quali il bisogno e il timore. 

Tale passioni caratterizzano per Hobbes lo "stato di natura", la condizione originaria antecedente la formazione della società, in cui regna la guerra di tutti contro tutti: in essa infatti, ogni persona mira a procurarsi ciò che serve alla propria sopravvivenza e autoconservazione, perseguendo il proprio bene a scapito di quello altrui. 


In tale contesto non esiste limitazione al diritto dell'individuo, in quanto ciascuno può possedere, usare e godere di tutte le cose che vuole e che sono a portata di mano, e dunque è inevitabile la sopraffazione reciproca: ognuno è nemico dell'altro, avendo come unico pensiero ed esclusiva occupazione di prevenirne le mosse e di offenderlo prima di essere offeso.


Nello stato di natura non c'è spazio per dedicarsi al lavoro, alla scienza o alle arti, poiché i frutti sarebbero esposti alla minaccia costituita dall'invidia e dall'avidità degli altri. Quando si vive nel terrore di una morte improvvisa e violenta, non si può coltivare la terra, né praticare la navigazione, né costruire edifici o quant'altro. La vita dell'uomo in questo stadio è solitaria, misera, brutale e breve.

Lo stato di natura è la condizione ipotetica, in cui gli uomini vivono in predo al proprio egoismo, senza alcuna legge stabilita e concordata, e perseguono il proprio interesse a scapito degli altri.
La prospettiva materialistica

Tutta la dottrina di Hobbes è incentrata sulla convinzione secondo cui gli individui sono animati dall'egoismo e mossi ad agire in vista del proprio interesse personale, in una condizione di perenne conflitto di tutti contro tutti.

Tale concezione deriva dalla prospettiva materialistica con cui Hobbes guarda all'uomo, considerandolo un essere interamente naturale e corporeo: per il filosofo, infatti, non solo le funzioni fisiologiche ma anche quelle mentali possono e devono essere spiegate in termini esclusivamente materiali, senza ricorrere a principi spirituali o ideali. 

Il materialismo è la considerazione filosofica secondo cui tutto è materia e lo spirito non esiste perché sarebbe contraddittorio ammetterne l'idea, dal momento che solo i corpi possono agire o subire un'azione. Il materialismo di Hobbes viene definito più propriamente "corporeismo", in quanto l'autore ritiene che esistano e siano conoscibili soltanto i corpi.

Scienza e linguaggio

A differenza di Galileo, che considerava la natura dotata "oggettivamente" di una struttura matematica e la scienza come una riproduzione concettuale di essa, Hobbes pensa che la scienza non rispecchi la realtà, ma sia soltanto un reticolo di concetti convenzionali.

L'uomo infatti non può conoscere le cause dei fenomeni, perché l'autore del mondo fisico è Dio. Al contrario, l'uomo può conoscere "scientificamente" la politica, in quanto questa è costruzione totalmente umana.
E'
L'invenzione della stampa, osserva l'autore, se comparata con l'invenzione dell'alfabeto non è una gran cosa. E' grazie al linguaggio che possiamo pensare ed esprimere il nostro pensiero: esso ci permette di "trasferire il nostro discorso mentale in discorso verbale, o la serie dei pensieri in una serie di parole" dice Hobbes.

Il linguaggio svolge due importanti funzioni.

  • Innanzitutto, serve a designare le cose, in modo tale che l'uomo possa sempre ricordarle e richiamarle alla memoria (funzione mnemonica). 
  • In secondo luogo, serve a far comprendere agli altri le cose che pensiamo e le connessioni che abbiamo stabilito tra esse.

Le parole come segni


E' proprio perché devono assolvere le funzioni elencate prima che le parole sono state chiamate dagli antichi signa, cioè "impronte", "tracce", segni convenzionali che hanno il compito di indicare concetti e cose. 

Ci sono parole che significano cose individuali e singolari (es. Pietro, Giovanni, quest'uomo, quest'albero); altre invece, che si riferiscono a molte cose (es. uomo, cavallo, albero), rispetto alle quali, prese nel loro insieme, sono denominate "universali"

L'universale è semplicemente una generalizzazione che si ottiene proprio attraverso i nomi; un nome universale è attribuito a molti elementi per la loro somiglianza rispetto a qualche quantità. Mentre un nome proprio evoca nella mente una cosa sola, gli universali ne richiamano molte.

martedì 5 febbraio 2019

Hobbes e lo Stato assoluto



Thomas Hobbes è una delle personalità più singolari del pensiero moderno e una figura ancora oggi significativa per la radicalità delle posizioni teoriche.

Vissuto in uno dei periodi più instabili e sanguinosi della storia inglese, è assertore convinto dell'assolutismo regio (la concezione secondo cui il re, per diritto divino, spetta il potere assoluto), visto come l'unico baluardo contro l'inevitabile disordine a cui la società andrebbe incontro senza un governo monarchico che assommi in sé tutte le prerogative del dominio.


Una vita nel segno della paura

Hobbes compie in prima persona l'esperienza dell'individualismo e dell'aggressività di cui è capace l'animo umano, e li descrive nelle pagine delle sue opere, in cui dichiara di essere "fratello gemello della paura".

Sua madre, infatti, lo partorisce prematuramente a causa dello spavento provocato dalla notizia dell'arrivo dell'Invincibile Armata.

Durante la sua lunghissima esistenza Hobbes assiste ai fatti drammatici che colpiscono il suo paese, tra cui lo scontro tra il Parlamento e il sovrano, culminando una vera e propria guerra civile

Nel 1640 Hobbes abbandona l'Inghilterra per il timore che le sue idee filo-monarchiche potessero suscitare dure reazioni da parte dei sostenitori del Parlamento. Si rifugia in Francia

L'obiettivo filosofico e politico

Il suo progetto politico nasce da una visione pessimistica dell'essere umano, giudicato fondalmentalmente egoista, avido e violento, secondo il motto del poeta latino Plauto:


homo homini lupus

(ogni uomo è un lupo per l'altro uomo)

Questa concezione negativa della natura umana porta Hobbes a descrivere l'uomo come un essere alla mercé del proprio interesse personale, in assenza di regole e di una forma superiore di controllo, gli impedisce di riconoscere limiti naturali al suo agire, se non la forza e la prepotenza dell'altro.

Il filosofo mira a elaborare una dottrina politica sulla cui base organizzare una comunità ordinata e pacifica. Avvalendosi di una precisa strategia argomentativa, Hobbes tende quindi a dimostrare come l'assolutismo politico sia una necessità logica e razionale, quasi l'esito di un ragionamento condotto secondo un metodo rigoroso.